sabato 4 aprile 2020

Ventiseiesimo giorno


C’è chi insegue la realtà, volendo stare al passo. Voglio aderire alle cose, percepirle nella loro concretezza. Voglio sapere quello che accade fuori, ma soprattutto dentro la rete. Inseguo allora le notizie, che esplodono in pop up e banner come a carnevale quando si lanciano i coriandoli. Inseguo i commenti e le opinioni. Confronto i numeri fotografati del passato con quelli fluttuanti del presente. Le informazioni lievitano inarrestabili facendo a gara, quanto a velocità, con la diffusione del virus.
In tutto questo e molto di più consiste la sensazione che i nostri occhi non debbano far altro che condurre la mente nelle strade affollate di altri occhi e di altre menti, per rimanere ancorati al mondo. E dal mondo attirati. Come se, solo in quella piazza gremita di occhi e menti consista la realtà di cui occuparsi.
Ci sono poi gli introvisionari. Sono coloro che seguono altri echi e che si attardano con questioni che ai più potrebbero sembrare banalità. Sono i poeti, gli scrittori più schivi, gli artisti che osano a costo di essere fraintesi. Sono quelli che riempiono gli spazi lasciati vuoti dalle cose reali, dalle notizie, dalla storia ufficiale e riescono, grazie al dono di occhi che non fuggono verso fuori ma che procedono nella direzione opposta, a spingere in avanti la coscienza.
Uno di questi introvisionari è stato Federico Fellini. Dice di se stesso negli anni 1941-43, in un libro intervista, a proposito della guerra: "Devo confessare, purtroppo senza arrossire, che tutto quel che dicevano non mi riguardasse affatto: non riuscivo a capire che cosa avremmo dovuto fare. E anche se potevo immaginare la necessità di atteggiamenti di cospirazione e di rivolta, come avremmo potuto organizzarla?" (F. Fellini, Intervista sul cinema, Editori Laterza, 2004, p. 47). La sua natura di introvisionario non lo sintonizzava con la storia - seppure dolorosa per molti - perché il suo compito era quello di mostrare su uno schermo immagini nuove. Così, il fascismo di Amarcord ha i contorni deformati del sogno, oscilla tra un grandioso paternalismo e la visione ingenua di un bambino, che ne esalta la banalità. E a pagina 45 dice di Kafka: "Kafka mi emozionò profondamente. Rimasi colpito da questo modo di affrontare l'aspetto misterioso delle cose, la loro indecifrabilità, il senso del labirinto, del quotidiano che diventa magico".