martedì 31 marzo 2020

Ventiduesimo giorno

Kublai Kan attraverso il viaggio-racconto di Marco Polo vuole toccare non solo la vastità, ma soprattutto la varietà del suo impero. Nello svolgersi però della narrazione, il sovrano si accorge che tutte le città prendono forma attraverso gli stessi elementi, organizzati in modi diversi, fino a ipotizzare che per scoprire l'aspetto di quelle terre sia sufficiente in fondo giocare una partita a scacchi: "[...] bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni successivo stato della scacchiera come una delle innumerevoli forme che il sistema delle forme mette insieme e distrugge. [...] La conoscenza dell'impero era tracciato [...] dalle alternative inesorabili di ogni partita" (I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1972, pp. 128).
Kublai Kan vuole afferrare la conoscenza, la vuole possedere come il regno e le ricchezze di cui dispone, vuole comprenderne i meccanismi più segreti e assoluti. Ma nella rarefazione dei particolari, per giungere all'ossatura del suo mondo, si domanda quale sia il vero fine della partita. Cosa si vince o cosa si perde davvero? La sua magnificenza barcolla, come il re sotto il colpo del vincitore nel gesto dello scacco matto, riuscendo ad afferrare solo "un quadrato nero o bianco [...] un tassello di legno piallato: il nulla" (p. 129).
Kublai Kan è assetato e curioso della vita del suo regno. Ma seguendo gli emblemi che Marco Polo gli narra, si accorge che il suo sguardo si arresta impotente di fronte allo scarno tassello di una scacchiera. Tutto il tragitto che hanno compiuto insieme sembra condurre al vuoto e all'immobilità. Eppure, proprio da quella condizione di arresto, Polo scova il movimento di un nuovo racconto: "Allora Marco Polo parlò: - La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità [...]. La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d'ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre..." (pp. 139-140).
Kublai Kan però è ancora trattenuto dai suoi incubi: "Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale" dice a Polo, che lo incoraggia così a "cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio" (p. 170).